Subject, object, win or die

 

Stella: Man fucks woman. “Man” subject, “fucks” verb, “woman” object. That’s ok. Woman fucks man. “Woman” subject, “fucks” verb, “man” object. That’s not so comfortable for you, is that?

 

Marquise de Merteuil: When I came out into society I was 15. I already knew that the role I was condemned to, namely to keep quiet and do what I was told, gave me the perfect opportunity to listen and observe. Not to what people told me, which naturally was of no interest, but to whatever it was they were trying to hide. I practiced detachment. I learned how to look cheerful while under the table I stuck a fork into the back of my hand. I became a virtuoso of deceit. It wasn’t pleasure I was afer, it was knowledge. I consulted the strictest moralists to learn how to appear, philosophers to find out what to think, and novelists to see what I could get away with, and in the end, I distilled everything to one wonderfully simple principle: win or die.

Riflessioni sull’amicizia

Da quando posseggo una connessione internet, ricevo quei meravigliosi e famigerati video infarciti di aforismi sull’amicizia, il sorriso, l’umiltà, l’ammmore. La persona che li invia ha l’intento di rendermi partecipe del suo affetto, della sua positività, e mi suggerisce dolcemente di fare altrettanto, e di spargere nell’aire il messaggio cosmico in essi contenuto. Seguono tutti le seguenti regole: sono lunghissimi, pesantissimi (in senso di bytes e non solo), sono accompagnati da bucoliche fotografie stile discovery channel e delicate melodie New Age.

Soprattutto, sono un concentrato malefico di luoghi comuni triti e ritriti, che suscitano in me l’istinto omicida. Vado a commentarne uno scelto a caso.  Visto fino in fondo e, addirittura, trascritto. A volte ho paura di me stessa…

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Letale come una governante inglese

Ti ho spaventata? Me ne compiaccio!

Oggi percepisco in me un sentore di letale pazzia. Oggi mi sento Mrs. Danvers, la governante che amava la prima (e defunta) moglie Rebecca e odiava la seconda moglie, Mrs. de Winter, fino al punto di tentare di spingerla al suicidio. Senza riuscirci, ahimè!

Ma la Mrs. Danvers che alberga in me non è ossessionata dal sentimento di totale devozione nei confronti della trapassata (nonché stronza) Rebecca. ‘mporta un bel cazzo. La mia crudeltà è studiata, pianificata, insinuante come un serpente che si attorciglia lentamente intorno alla sua vittima e, quando l’ha imprigionata, stritola.

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Alibi perfetto

Procacciami, gratta e vinci le mie paure: sarò la tua dea bendata. Ritagliati lo spazio lungo il tratteggio, e riceverai una risposta scontata. Sì.

Sparpagliami, disorienta i miei cinque sensi mischiando le carte in tavola. Tu hai la mano vincente, io ho quella che mi tocca.

Rosicchiami, toglimi terreno sotto i piedi del letto e srotolami sul tappeto. Mi sembrerà di toccare il cielo in una stanza.

Accecami con la tua bellezza mozzafiato, amami da morire.

Dammi tempo: spostami le lancette sull’ora illegale, ed io giurerò davanti alla Corte che eri con me, nascosto tra le due e le tre.

La perfida Alexis

Ho deciso: oggi sarò la perfida Alexis.

Voglio essere l’epitome della crudeltà senza chiariscuri, senza mezze misure. Indosserò un abito luccicante e fasciante, dalla scollatura che mostri con sprezzo l’abbondanza e ridondanza del mio petto generoso,  e mi butterò sulle spalle una pelliccia vergognosamente costosa e sfacciatamente vera, di zibellino del Camciacta. Cingerò il collo con una gorgiera di zaffiri  e farò pendere dai miei lobi, anch’essi crudeli, due cascate di pietre preziose multicolor, tintinnanti ad ogni mio baldanzoso passo (su stiletti di pelle umana) verso una nuova, cattiva azione.

Come sempre e senza requie, tramerò et ordirò a più non posso.

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Peso specifico

Non riesco ad eliminare la tua impronta dal divano: ho tentato di sostituirti con qualcuno di stazza superiore alla tua, ma la forma delle tue terga resta, indelebile, a ricordarmi il perché io abbia deciso di non vederti più.

La tua densità era superiore alla media: occupavi lo spazio di casa, lo riempivi, ingravidavi con lo stupro quotidiano della tua presenza ingombrante. Eri persona di spessore, ma non nella sostanza dei tuoi meriti, bensì nella consistenza greve con cui davi per scontato di sapere cosa fosse giusto per me.

Con crassa supponenza, sostenevi di amarmi molto più di quanto io ti avessi mai amato. A nulla servì confessarti che i miei sentimenti erano sempre stati incostanti, lievi e fragili come cartavelina.

Tu avevi abbastanza amore per entrambi, dicevi. Supplivi alle mie incertezze con la tenacia del bambino che pretende si mantenga la promessa fatta.

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Equinozio

Una volta, caddi.

Cornicione scivoloso di brina notturna e cattivi pensieri. Vomitarmi via le ore disperate e immote, a guardare polvere ammucchiarsi sui vestiti e sui miei piedi scalzi. Scalzi anche i polmoni oppressi da zavorra, e nuda la pelle sopra il petto, sottile come il filo del destino. Nodo disfatto, unghie spezzate di tormento.

Aria come cibo, bevendo il mio silenzio. Divorandomi.

I miei occhi, orbite desertiche. La dispensa vuota. Osteoporosi.

Una crepa dal cranio alle caviglie, per disintegrare in schegge il mio passaggio.

Frantumi di mosaico. Tassello perduto, nell’equinozio tra bacino e cuore, di cui sento la mancanza. Sempre.

Piove sul bagnato e sul Pamela (parte prima)

La pioggia che cade sulla pianura padana ha essenza differente dalla pioggia del resto del mondo: fina, trasparente eppur opprimente, appiattisce ancora di più l’orizzonte, laccando di lucido l’infinito nulla. Monotona ed interminabile come l’attesa del tuo turno dal dentista, quando sai che il sacrificio di aspettare verrà ripagato con altro sacrificio.

La periferia del piccolo borgo romagnolo si trasforma in campagna senza che l’occhio umano se ne accorga. Ai lati della strada, campi spogli e viti denudate, secche d’autunno.

La pioggia produce silenzio.

Raoul ama spezzare quel silenzio offrendo le proprie spalle all’acqua scrosciante, contando i rintocchi pesanti delle gocce che si infrangono sulla pelle spessa del giubbotto nero. Senza casco, seduto sulla sua Ducati rossa ferma lungo il ciglio del torrente, ascolta.

A quell’ora della notte non c’è anima viva in giro, e Raoul può prendere possesso del cosmo. Come un direttore d’orchestra, chiude gli occhi e lascia fluire le note della natura dentro di sè: lo scorrere ruvido del torrente nel suo letto di cemento, il lesto movimento di un rapace, l’erba intrisa che si difende contro la pioggia in una battaglia persa in partenza. Le note si mescolano in musica battente che Raoul dirige e scandisce al ritmo delle proprie pulsazioni.

C’è un angolo nascosto nella carne profonda di Raoul dove piove sempre. Stessa pioggia sottile e continua, noiosa come una ninna-nanna cantata dalla mamma quando non vuoi dormire. Quel piccolo lembo sanguinante va in risonanza con la notte piangente, urlando ricordi e dolore.

Raoul si lascia sopraffare accettando la sofferenza, anche fisica, del ferro nel polpaccio, risvegliato dalla troppa umidità.

Mentre la pioggia cade, Lisbeth è indispettita: la Milvia ha trovato da fare del buono al Pamela, mentre lei, nonostante il Gionatan sia pronto ad un secondo round e le lanci occhiate da cucciolo di peluche, non ha proprio voglia di compagnia. Capita quando il cielo piange troppo: Lisbeth si sente come se dovesse farsi carico delle lacrime, e consolare i cumulinembi bigi e disperati.

Con un cenno sbrigativo della testa, saluta l’Alieto e Mother, che la guardano andarsene senza proferire parola: conoscono troppo bene il motivo della sua scontrosità e non se ne danno cruccio perché sanno che va bene così.

Senza ombrello, Lisbeth è costretta a correre verso l’automobile, cercando di evitare le pozzanghere. Una storta, la calza che si smaglia, il tacco che si rompe. Le chiavi dell’auto introvabili.

Lisbeth si ferma in mezzo al parcheggio, alza le braccia al cielo e comincia a ridere sonoramente. L’irritazione è sparita, lavata via dalla pioggia e dalle contingenze. Dal buffo della vita, dal grottesco delle ombre notturne che sembrano maschere di una commedia messa in scena soltanto per chi è in grado di vedere l’eterna pantomima dell’esistenza.

Dal Pamela arriva il suono ovattato della musica. Una coppia parlotta, camminando svelta verso la propria vettura. Il rombo di una moto si avvicina.

Ora il parcheggio è deserto. Lisbeth volge il capo verso il rumore del motore nell’istante stesso in cui Raoul la vede. Un fulmine esplode tra i tetti, trafiggendo Lisbeth di luce che rivela: Raoul è senza casco, pallido, fradicio, bellissimo. I suoi occhi hanno il colore sconosciuto e segreto di foresta bagnata dal pianto ancestrale della Terra.

Ormai scoperto, esposto al laser color caffè dello sguardo di Lisbeth, Raoul scende dalla moto e si avvicina in due potenti falcate.

“Non questa sera, Lisbeth…questa sera non posso fermarmi…”

Lisbeth trema, cosciente del suo essere viva, cosciente di ciò che sta per succedere.

Raoul è  troppo vicino, alto, l’espressione determinata del killer. L’afferra con la velocità di un animale predatore, le infila le dita tra i capelli, toccando il centro preciso del piacere, e la bacia.

Labbra morbide che sanno di buono. Lingue che riconoscono un linguaggio che appartiene solo a loro due. Perdita del passare del tempo, del buon senso, del freddo. Corpi di lattice aderente, mani che spazzano via confini e pudore, adrenalina.

to be continued.

Di ristoranti, recensioni e trip

Sono all’estero.

Paesello ameno e sconosciuto. Fame. Tanta fame.

Desidero un ristorante che mi possa soddisfare e lasciare piacevoli ricordi. Che fo? Ma controllo su tripadvisor, perbacco, e mi faccio un’idea del servizio, della qualità del cibo e del menu! Ecco un’esaustiva recensione tradotta in italiano:

Sono rimasto piacevolmente sorpreso e felice di mangiare al Royal all’inizio di dicembre 2013. Ho chiesto un pasto Vegano e uno non utilizzando i condimenti fermentati (la maggior parte dei luoghi mi guarda come se non sto abbastanza bene).
Il pasto a tre portate il cuoco fornita era incredibile e deliziosa, indicando con un complesso d’insalata che comprendeva un razzo, arrosto alla zucca squash e più, seguita da una portata principale di verde pisello e gara staminali broccoli risotto (ad un rinfrescante cambiamento forma il piedistallo risotto ai funghi servito da più posti) e nonostante il mio – contraddicendo che non ho bisogno di un dolce ho ceduto: la Tarte Tatin nel deserto per due persone, placcati al tavolo, era una delizia rivestiva. 5 Cene stat per me. Grazie e Wow.

Intimorita dall’idea di assaggiare il razzo, la zucca squash (che mi trasmette una sensazione sinistra da dolcetto e scherzetto), e la prospettiva di essere placcata al tavolo per il miraggio di una tarte nel deserto, opto per un hamburger. Diffidate dei luoghi che vi guardano come se non state abbastanza bene…

Grazie e Wow.

Che le nuvole nascondano la luce un poco

Occhi screpolati, ostinati a fissare l’invernale sole. Luce, fredda come freccia, scheggia: scalfisce il respiro regolare del mio ultimo cielo, pallido e pavido di colorarmi il fiato. Sento la trasparenza ossea, le vene intricate con le arterie in sinuose fiale di cristallo, e giochi d’acqua il sangue che zampilla verso le mie mani in alto, a toccare castelli in aria.

Il mio corpo brilla e riverbera il miraggio tra le foglie d’acero appuntite, vive al soffio del mio petto. Tremolanti e vermiglie, disegnano pezze di nuvole e partoriscono musica carezzevole come pelle spogliata tra seta di lenzuola.

Un sapore sconosciuto si mischia alla saliva: sa di mare aperto e segreti svelati. Dai miei fondali scaturisce una lacrima che mi commuove e mi fa piangere la stessa nota nel vento.

Vorrei avere paura del non ritorno. Mi pervade levità.

Le ciglia dell’orizzonte curvo si chiudono sul mio sentire e pensare. Si ferma il vento e lo scorrere del tempo.